«La passione per il genere storico nasce ai tempi dell’università». «Durante gli incontri è emozionante vedere tanta gente interessata». «La Martesana è un luogo molto caro ai Visconti e a me». «Vorrei scrivere una trilogia»

2016-11-25

Collega, scrittore e, non per ultimo, amico. Luigi Frigoli è stato redattore di InFolio per parecchi anni poi ha deciso di provare una nuova avventura professionale con i quotidiani. Nel frattempo si è anche dedicato alla scrittura di romanzi. Storici per la precisione. Dopo il fortunato esordio con “La vipera e il diavolo”, dallo scorso luglio è di nuovo in libreria. La sua ultima fatica si intitola “Maledetta serpe”. Bello. Molto bello. Da leggere tutto d’un fiato perché l’avventura romanzata si intreccia in maniera impeccabile con la parte storica in maniera che si possano anche apprendere nozioni e particolari davvero curiosi e inediti. E parlarne con lui, in un’intervista che ha il sapore di una chiacchierata al tavolo di un bar, è davvero un piacere. Inutile dire che ci diamo del tu.
Allora, come stanno andando questi primi mesi di “Maledetta serpe”?
«Molto bene. Sin dall’uscita, a luglio, ho ricevuto buone recensioni e complimenti da parte dei lettori. E il tour di presentazioni procede spedito, toccando anche location e contesti prestigiosi. Questo non può che lusingarmi e rendermi orgoglioso. È emozionante a ogni tappa, nelle librerie, nelle biblioteche o alle serate organizzate da enti e associazioni, trovare tante persone interessate a scoprire, attraverso il mio libro, un pezzo di Medioevo italiano che io amo molto, ma che a lungo è stato dimenticato».
Come definiresti questo tuo secondo romanzo e cosa possiamo dire brevemente della trama senza svelare troppo per non togliere la suspense ai futuri lettori?
«È il seguito del mio romanzo d’esordio, “La vipera e il diavolo”, ma, seppur collegati, i due libri hanno comunque vita autonoma. Nel primo ho raccontato lo scontro per il trono di Lombardia all’interno della dinastia Visconti alla fine del ‘300. In “Maledetta serpe”, invece, racconto l’ambiziosa e sfrenata ascesa di Gian Galeazzo Visconti. Fu il primo duca di Milano e, preso il potere, iniziò un’incredibile offensiva contro tutti e contro tutto, con il sogno di farsi re d’Italia. Questa è la macro-storia, il filo conduttore. Poi ci sono altre sottostorie, tutte realmente accadute e secondo me molto intriganti. A cominciare da quella dei donatori maledetti che hanno contributo alla costruzione del Duomo di Milano, fondato proprio nel periodo in cui è ambientato il libro. Noi ce li raffiguriamo come uomini ricchi, nobili e onesti. Ma i fondi per i lavori arrivarono anche da briganti, assassini e prostitute. A loro ho voluto dedicare la cornice del romanzo».
Rispetto a “La vipera e il diavolo” mi è parso di cogliere una prosa più leggera, coraggiosa, sciolta...
«In effetti non sei il primo a farmelo notare. Ma credo sia comprensibile. La scrittura è come la vita. Si accumula esperienza, si cresce, si cambia. E, inevitabilmente, si diventa più consapevoli e, quindi, più coraggiosi».   
Nel libro troviamo alcuni accenni legati anche al territorio della Martesana. In questi passaggi cosa c’è di vero e cosa invece di romanzato?
«La Martesana era un luogo molto caro ai Visconti. E anche a me, che ci ho lavorato per 10 anni. Senza contare che in Martesana trovo sempre un’accoglienza calorosissima. È accaduto a Cernusco, città di cui mi sono maggiormente occupato come giornalista, ma anche a Segrate, a Cologno Monzese, a Vaprio d’Adda. Per quanto riguarda il libro, alcuni luoghi, come Trezzo sull’Adda, sono stati davvero teatro di vicende importanti. Altri, come Rovagnasco, li ho scelti perché a me familiari. In generale, ho cercato di creare l’intreccio partendo da precise fonti storiche, per poi mescolare il tutto con la fantasia».
Mi dici un personaggio secondario che a tuo giudizio meriterebbe maggiore attenzione?
«La sventurata Agnese Visconti. S’innamorò di un giovane cavaliere e il marito, Francesco Gonzaga, la fece condannare a morte per adulterio. Per molti, in realtà, fu solo un complotto per toglierla di mezzo perché si opponeva alle mire di Gian Galeazzo, la maledetta serpe, suo cugino. E poi Isabella di Baviera e Valentina Visconti. E Caterina, consorte e cugina del tiranno milanese. Sono tutte donne, lo so. Ma la storia medievale, viscontea e non, è costellata di tantissime donne straordinarie, la cui memoria è rimasta, e resta tuttora, offuscata dalle imprese degli uomini. Nei miei romanzi cerco di dare a queste figure femminili la dignità che meritano e che non hanno avuto».
Da dove nasce l’amore per il romanzo storico?
«Dai tempi dell’università, quando mi sono occupato di raccogliere e commentare una serie di racconti risalenti all’epoca viscontea. Scoprendo che nel Trecento milanese e lombardo la storia si fonde a tal punto con la leggenda che c’è materiale per scrivere non uno, ma cento romanzi».
Mai pensato di cimentarti in un altro genere?
«Certo. Mi piacerebbe cimentarmi con un thriller. Oppure con una storia distopica o ucronica, ovvero con un romanzo dove si immagina che i fatti storici abbiano preso una strada diversa da quella realmente imboccata e che la società sia differente da quella che oggi conosciamo».
Quanto è difficile togliersi i panni del giornalista e indossare quelli dello scrittore?
«Abbastanza. Sono due modi di scrivere totalmente agli antipodi, anche se entrambi richiedono passione e attenzione. E sacrificio, perché si sottrae inevitabilmente tempo alla famiglia e agli amici. Nel caso del romanzo storico, poi, prima di iniziare a tessere la trama si deve trascorrere moltissimo tempo a spulciare fonti, cronache, resoconti storiografici. Altro tempo e altro sacrificio».
Per te scrivere cosa significa?
«Se penso al giornalismo, è una professione. Se penso ai romanzi, è un modo per mettere alla prova la mia creatività. Il filo conduttore è il piacere di narrare, di condividere storie particolari, intriganti, avvincenti. Che siano accadute oggi o secoli fa, non importa. La voglia di raccontare è la stessa».
Ci dobbiamo aspettare un altro romanzo per chiudere la trilogia?
“L’idea è quella. Non si dice forse che tre è il numero perfetto?”
Roberto Pegorini